Dopo un interminabile aspettare, l'Irene era giunta appena a rendersi conto preciso della fortuna del suocero. Egli possedeva ancora una vigna in Val d'Inferno, e la casa che abitava: sessantacinquemila lire in tutto: di piú, un debitore, nel gennaio, gli aveva ceduto una casetta in Trastevere, valutata altre quindicimila lire; e si dovevano aggiungere a questi possessi ventiduemilacinquecento lire di crediti ipotecari. Era l'osso che i suoi figli potevano ancora rodere con certezza, s'egli moriva prima di risolversi a fare con tale rimasuglio di sostanza il giuoco fatto col resto. Un resto molto rispettabile! Cinquecentonovantatremila lire di capitale nominale in titoli al portatore dei prestiti pontifici e della rendita italiana, depositati alla Banca Romana, e che si accrescevano ad ogni distacco semestrale del vaglia. Padron Gregorio aveva un risolino feroce, nel dimostrare alla nuora come, in termine di mezz'ora, egli avrebbe potuto levarsi il gusto di regalare quei pezzi di carta al primo straccione incontrato per via, od anche di farne una bella fiammata per riscaldarcisi le polpe. Ma non sarebbe stato cosí bestia. Eh! eh! l'impiego utile non sarebbe mancato davvero, al momento opportuno.
La promessa implicita non soddisfaceva Irene. Soprattutto, ella capiva di non potersi ritenere certa del fatto suo, fin che il capitale restava alla Banca. Dibattevasi nella penosa ricerca di un mezzo per indurre il suocero a ritirarlo ed a conservarlo in casa. Non le riusciva. Di certo il vecchio credevasi immortale, ed avrebbe avuto tempo di farsi sotterrare dieci volte prima di risolversi a qualche cosa di positivo.
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