In realtà padron Gregorio credeva di aver sufficientemente esaminato Mario; erasi ricreduto dei propri sospetti, e non desiderava piú vederselo tra i piedi. Irene poteva dire quel che voleva; ma il vecchione imbambolato trovava che se ne stavano troppo bene soli, lontani dalle seccature e dai seccatori.
Ma di seccature, ne capitò una sesquipedale, improvvisamente. Una mattina, Irene trovò il suocero fuori di sé. Non ebbe il tempo di domandarne il perché. Al vederla, il vecchio, con atto tragico, le pose in mano una lettera col timbro postale della città, e la invitò a leggerla ad alta voce.
Era una denuncia anonima; una rivelazione precisa ed abilissima di tutto ciò che la giovine donna aveva fatto, e di tutto ciò che voleva fare.
Il colpo partiva senza dubbio da qualcuno che aveva studiato attentamente Irene da vicino. Lei stessa non s'era reso conto ancora dei propri sentimenti, come li vedeva smascherati brutalmente. Un sarcasmo atroce dominava nelle quattro pagine fitte del foglio. Ferramonti vi era sbeffeggiato come un vecchio imbecille messo nel sacco da una meretrice ipocrita, che non concede alla sua vittima neppure la punta di un dito. Del resto, l'autore della lettera non si aspettava punto ch'egli avesse aperto gli occhi. Tutt'altro! Ma ammoniva Irene di badare ai passi falsi che avrebbero potuto condurla in Corte d'assise.
Ella aveva cominciato a leggere con un fremito di leonessa inferocita; poi uno sgomento strano la invase, la sformò. Ripeteva le parole del foglio automaticamente, senza pause e senza inflessioni; arrivò fino in fondo.
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