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      Irene e Teta curavano il moribondo. Peraltro, Teta mostravasi evidentemente la piú assidua fra le due. C'era da credere che Irene si lasciasse spesso dominare dallo sconforto di saper vano ogni tentativo. Infatti, non restava piú che aspettare la morte inevitabile del vecchio Ferramonti, e che augurargli fors'anche di farla presto finita, per pietà delle sue sofferenze. Un consulto di celebrità mediche, voluto anche questo da Furlin, il secondo giorno di malattia, aveva servito soltanto a confermare le notizie disperate già date dal medico curante.
      Insomma, le qualità d'infermiera d'Irene non si potevano mettere a confronto con quelle di Teta. Quest'ultima era continuamente al letto del padre, di giorno e di notte; non pensava piú a se stessa; dormiva sonni brevi, vestita; mangiava a caso, quando un momento di tranquillità assoluta lo permetteva. E, gradatamente, spiegava un'intenzione soverchiatrice di fronte alla cognata; una sorda gelosia dell'opera sua; un bisogno di sostituirsi alle attenzioni di lei verso l'infermo ed anche all'autorità sua verso le persone di servizio. Forse anche spingevasi tanto innanzi, perché trovava una imprevista debolezza. Irene cedeva terreno palmo a palmo, disarmata anche per propria colpa da una tendenza crescente verso la solitudine. Spesso mancava anche quando era desiderata. Restava nella propria camera per ore intiere; abdicava non solo a Teta, ma agli altri pure. Doveva cercare apposta d'esser sempre occupata del suocero od altrimenti, quando la famiglia raccoglievasi nella stanza da pranzo a mangiare un boccone in comune, forse per non mescolarsi ai discorsi, che, appunto in tali occasioni, venivano fuori naturalmente.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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