Batteva i denti figurandosi di vedersi trascinato a viva forza nella cella di un manicomio, dove si sarebbe visto dinnanzi, nel delirio, bello, infernale, inesorabile, eterno, il fantasma d'Irene, per straziargli il cuore, per farlo morire, oncia ad oncia, forsennato! No, non era possibile durarla piú a lungo! Indugiava proprio, per dare alla gente il diritto di ridere alle sue spalle?
Un mercoledí il cavaliere Paolo Furlin comparve improvvisamente da lui, per dargli una notizia spiacevole: il tribunale aveva pronunciato una sentenza incidentale, che ammetteva Irene a produrre la prova testimoniale sulla circostanza che il debito, od atto di libera donazione fra vivi di Gregorio Ferramonti, risultava, oltre che dalla dichiarazione presentata, anche da precedenti atti verbali del dichiarante. Furlin veniva per sentire se Mario avesse in quella congiuntura qualche suggerimento o qualche disposizione da dare.
Mario guardò il cognato, ridendosi di lui. Quali suggerimenti? Che sapeva egli d'imbrogli forensi? Aveva detto una volta per tutte, che si rimetteva a quello che Paolo e gli avvocati avrebbero fatto, e bastava! Gli rendevano un grosso favore se lo lasciavano in pace.
- Allora - disse Furlin, - t'informerò.
- Rispàrmiati questa fatica, sino alla conclusione finale. Siamo intesi, non è vero? Come sta tua moglie? Vuoi un sigaro?
Non parlarono piú della causa. Poi Mario, partito Furlin, si abbigliò ed uscí. Da una diecina di giorni egli non aveva piú visto alcuno della sua famiglia, e quella comparsa gli lasciò un viso brusco d'uomo preoccupato; ma si rasserenò appena in istrada.
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