Conclusero un ottimo affare, grazie a Paolo che aveva saputo a tempo pescare l'acquirente ben disposto. In un lucido intervallo d'intelligenza, Pippo riconobbe che il cognato gli aveva reso un servizio da buon parente. Giurò che non lo avrebbe dimenticato mai. Avrebbero visto, Teta e Paolo, come si sarebbe ingegnato a dimostrar loro la sua gratitudine! Bastava che avessero avuto un po' di pazienza, il tempo necessario a lui per rimettersi un po' in salute e per scuotere la stupida poltronaggine che lo arrugginiva.
Fu l'ultimo bagliore della sua intelligenza. Si trascinò ancora poche settimane per la città, oziando, logorandosi in un marasmo incalzante, in una malinconia tetra, che aveva dei frequenti ricorsi di vera demenza. Spesso, esaltandosi per un nonnulla, dava degli spettacoli gratuiti agli oziosi ed ai monelli della strada, riducendosi a casa inseguito dai lazzi della folla, o ricondottovi, quando da una guardia municipale, quando da qualche amico pietoso. Una mattina, svoltando l'angolo fra il Corso e via Condotti, s'incontrò faccia a faccia con Irene, bellissima nel suo pallore di donna malinconica e nelle sue vesti di lutto rigoroso.
Si guardarono. La giovine donna passò oltre, come se non avesse riconosciuto il marito, senza che un solo tratto del suo viso si alterasse. Svoltò la cantonata, e sparí.
Pippo non ne imitò l'indifferenza, lui! Tutta l'anima sua erasi effusa nello sguardo da lui rivolto alla donna fatale, che da mesi non nominava piú, quasi dimentico della sua esistenza.
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