A queste parole successe un po' di confusione e di gridi affermativi e negativi... fra i quali, come una nota stridente, si udí sopra tutti il – non mi ci fido – di Rizio.
Ma sul piú bello una voce piú lontana, nuova in quel momentaneo concerto, e piú forte di esso, fu intesa esclamare, annunziando una novità:
– Hai torto marcio a non fidarti dei re, e del nostro in particolare... – e siccome tutti erano avidi di notizie a quella voce si tacquero, voltandosi con ansia a colui che, entrando per una porticina laterale dell'orto, aveva profferite quelle parole.
Era un uomo nel fiore della bella giovinezza: nobile nel portamento, e di guardatura espressiva, piena, come il suo viso, di gioja o di dolore, di raggi e di ombre, a seconda che l'anima rapidamente e manifestamente tutto vi dipingeva; in lui vi presento il figlio del padrone di casa, Alessandro Rizio, giovine ingegnere, speranza della famiglia: a Daniele era cugino, e assai diverso di stato, di educazione, d'indole.
– Perché?... – chiese Daniele al cugino, – cos'ha fatto di bello per avergli fede?
– Perché Verona o è caduta o sta a momenti per cadere, gente che vien di là lo assicura.
– Ma non è caduta.
– Fa conto che lo sia...
– Sí... sí... è lo stesso, – esclamarono tutti stringendosi attorno di Alessandro, per sentire le circostanze di questa prossima caduta.
Ma Daniele:
– Voi altri volete crederci ai vostri manichini in porpora e io no... – disse furibondo.
– Intanto, per male che la vada siam tutti fusi!... – esclamò Rocco.
– Ah! tu non la vuoi finire con quel monello di Folletto; bada che all'ultimo mi dai noja.
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