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– Bella confusione! – mormorò il savio dell'assemblea, la quale divenne davvero una Babilonia.
– Per me, – concluse Alessandro quando il diavoleto si fu calmato, – per me sia guerra campale, guerriglia, piantateci una repubblica, un regno assoluto... poco m'importa, mi basta liberarci dagli stranieri.
– E, – interruppe con brutale ironia Daniele, – non la intendi che senza repubblica è inutile liberarci?
Alessandro fece un gesto: ma poi represse il suo risentimento. Alessandro nutriva per Daniele una specie di venerazione: ne ammirava la sapienza, o quella che tale gli pareva: la coltura, acquistata a forza di privazioni, accettando gli ajuti della famiglia, a cui era legato in parentela, accettandoli quel che bastasse a non morire di fame: apprezzava lo stoicismo, il coraggio, e teneva le idee professate dal fiero repubblicano come lo slancio d'un'anima pura, verso il culmine d'ogni perfezione politica; tali sono di fatto, quando sincere.
– Il poco buon esito lo si deve, – cominciava Romeo, al quale per troppa prudenza, e per voler sempre trovar fuori cose che lo mettessero in luce come gran patriota, accadeva ciò che nasce a coloro che studiano troppo: toccava tasti pericolosi, faceva peggio insomma.
Poco mancò che Emilio Rensini non gli facesse piombare sulla testa uno scappellotto.
– Con qual poco buon esito m'esci fuora, buffone?
– Dicevo... dicevo, – rispose l'interpellato facendosi piccin, piccino.
– La nostra redenzione pare un miracolo! – esclamò allora Alessandro, stornando dal sospetto l'attenzione degli astanti: – È caduta Venezia come per incanto.
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