In quel momento entrò il vecchio Rizio, padre di lei, d'Alessandro, della Clelia, quindi suocero di Fiorenza e in avvenire anco di Salvatore. Tutti lo salutarono: il vecchio passò duro, duro: come il suo solito, del resto, che pareva avesse inghiottito il manico della scopa. Sorpassava la sessantina, ma mostrava poco piú dei cinquanta, giusto appunto per quell'andar via ritto, interito; piccolo, sempre acconcio, fazzoletto bianco, rasa la barba, e in mano una canna sulla quale s'appoggiava pochissimo.
– Marfisa! – sussurrò il signor Agostino Rizio, vedendo la figlia Teresa maneggiare la pistola.
Tra le novità della rivoluzione italiana, che non gli piacevano niente affatto, c'era la poca fretta di certi suoi debitori a portargli i denari, perché intanto che i giovani pensano alla poesia, i vecchi badano e tengono d'occhio alla prosa. Questo arenamento di numerario, questa difficoltà di riscotere le pigioni ed ogni altro credito, non si può dir come agisse qual deprimente sulle aspirazioni italiane del padrone di casa.
Seconda cosa, piú grave, il modo con cui la Teresa trattava il marito. In casa non l'aveva voluta, sotto il pretesto plausibilissimo che i letti li occupavano i soldati, aventi diritto di accantonamento. Sul dove ella fosse, cosa ella facesse, cosa intendesse, non voleva sapere; stava chiuso anch'egli nel suo quadrilatero morale, e aspettava d'uscirne a guerra finita, per rimettere l'ordine. Prima della rivoluzione tutti tremavano del dottore Agostino: ora poco gli davano retta, se si eccettui Fiorenza, sempre eguale.
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