– disse la signora Celeste, con aria di importanza... – figuratevi un po' se i gingilli furono conciati per le feste!... una bagatella di niente!... centinaja di fiorini iti in un lampo... diventati cocci buoni a gettare sul letamajo...
– Dove vuoi nasconderla quella roba?... – chiese la signora Giuliana uscendo dalla cantina.
– Eh! la vo a riporre in un sito a vòlto reale.
– Va bene!... io per me vado a guardar le mie verze... – e si mosse; in quella si udirono pedate sonore, virili rimbombar sulle pietre dell'entrata...
– Che sia l'ultimo giorno della mia vita! – irruppe Salvatore entrando a fianco di Emilio Rensini, e correndo fino ad una panchetta del cortile, dove si lasciò andare stracco morto, rosso scalmanato, pieno di polvere, fin nei capelli che parevano stoppia: tutti gli si avvicinarono, egli restò là col fucile in mano, guardando volare in ogni direzione obici e bombe, ignaro ed immemore: la bella faccia, sconvolta dalla passione, e grondante ancora il sudore del combattimento, rivolta al cielo.
Emilio non parlava ma cogli occhi truci, col ceffo arcigno, bestemmiava senza aprire bocca.
Poco dopo comparve il professore Alberto, cacciato di casa dalla sua Perpetua.
Il povero scienziato, con un libro di fisica sotto il braccio, andò a sedersi in istalla, presso la greppia. Egli pareva un po' stordito, come se non comprendesse da quali leggi fosse regolata la natura in tal giorno. A lui s'avvicinò il bell'ufficiale romano, il quale, convalescente di una ferita, non poteva uscire.
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