Lo stesso empireo simboloDi lutto e di dolor,
Se non mi parli, immagineDel mio perduto amor.
Ah! se nel mondo trovansiBelli due languid'occhi
A' suoi simili e simileVoce che l'alma tocchi,
Me, ramingante e querula,
Tosto vedrete errar,
Ad ogni landa inospita,
Al più lontano mar.
Dov'è, dov'è la splendidaGemma del serto mio?
Me la rapiro gli angeliE l'han portata a Dio;
Né più riavrolla, ahi misera,
Fin che il terreno velNon lasci e aderga l'anima
Per ritrovarla in ciel!
Guido non mi negò che fu lui a, comporla, anzi ad improvvisarla, ma vidi che gli spiaceva parlarne, e mi contentai di sapere ch'egli aveva interpretato il lagno d'una madre infelice. Però non valgo a spiegarti l'impressione di tristezza che quei pochi versi mi lasciarono. Quella infelice mi parve d'esser io. E sai... lontananza, tanti dolori, tante cose, insomma tutt'insieme un ignoto sgomento... Pur troppo di Salvatore nessuna notizia. Ti mando una lettera di Ugo... capirai niente da quegli scarabocchi?...
Ti bacia la tua Fiorenza.
Di Alessandro a Fiorenza.
Oh! quest'è bella! lezioni a me di sentimento!... a me che da piú di sette mesi duro in un esilio dei piú tormentosi... hanno un bel dire coloro che non fanno niente, a insegnare la virtú agli altri... coloro che dormono nel loro letto, pranzano alla loro tavola.
Oh! com'è duro lo star fuori di casa sua, come ripenso la tranquillità del mio studio; come v'invidio, pacifici giuocatori di tresette! Vedo la sera, quando, stufo di tutto, mi vo rimenando da un tavolino all'altro d'un misero caffè o d'una piú misera taverna, o d'un circolo politico di arrabbiati, vedo cogli occhi dello spirito quella camera dove tu lavori colla Clelia; vedo la tavola da giuoco, quella lucerna dal coperchio verde, tutto scuro attorno, e illuminate le parti sottostanti; vedo le tue mani che rapide infilano l'ago e lo passano.
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Dio Salvatore Ugo Fiorenza Alessandro Fiorenza Clelia
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