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– La spiegazione? essa è tutta in un'epigrafe: leggeste La Margherita Pusterla di Cantú?
– Sí: anco sere fa ne leggevo al suocero alcune pagine.
– Va bene: allora vi domando ciò che vi chiede l'autore prima di cominciare tale straziantissima storia, – Lettore hai tu spasimato?
– No! – rispose, colla stessa epigrafe, attenta Fiorenza.
– Questo libro non è per te, – concluse Guido. – Ringraziate il cielo, cara signora, di non saper cos'è spasimo.
– Oh! ma volete persuadermi d'esser sempre stato infelice?
– Quando dico "spasimato", intendo sofferto in modo, che non ha un nome umano. Però l'ombra non esclude il raggio.
Di nuovo il dialogo languiva. Una circostanza, estranea ai discorsi di Guido e Fiorenza, lo ravvivò. Passavano sotto i balconi, sulla strada che metteva all'aperta campagna, tre persone, formanti un gruppo curioso insieme e commovente. Erano un uomo, una donna, un bimbo ancora in fasce, il quale dormiva il sonno degli angeli, dentro una gerla, sulla schiena della madre. Il padre, invece, sul dosso portava la caldaja per fare la polenta.
All'assetto, apparivano montagnoli; non si sapeva d'onde venissero, dove andassero, né perché, se non per raggiungere le pecore sugli altipiani. Si capiva solo che era una famiglia, la quale cambiava stanza, rimanendo pur sempre unita; trasportando, nella sua vita nomade, i lari e gli affetti, inconscia ed indifferente alle vicissitudini del mondo.
Fiorenza guardò con occhio pietoso e accorato i tre pellegrini, e sentí l'arcana poesia di quei costumi primitivi e per cosí dire eterni.
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