Ora tocca a noi, il momento è venuto.
Alessandro non gli rispondeva; lasciandolo dire, continuava a macerarsi nel suo dolore.
– Io so che l'Italia ha perduto, e che i Tedeschi hanno vinto, – mormorò finalmente.
– L'Italia!... – interruppe Daniele, – chiami l'Italia un branco di servi del dispotismo, allineati in reggimenti! tu hai a dire piuttosto: ha vinto la vera madre, la sorella delle nazioni, che soffrono; la vera causa della libertà, del vero popolo: avresti avuto caro che vincessero i nobili del Piemonte: i proconsoli Torinesi!... per far giusto dell'Italia un Piemonte ingrassato? aspetta e vedrai.
Alessandro lo stava a guardare e l'ascoltava, come farebbe chi, disperato dell'ajuto d'un bravo medico, e in cui veramente confidava, volge l'animo a un empirico, a un cerretano, che gli promette, appoggiato alla sua incerta scienza, mari e mondi.
Però all'ultimo non resse, e:
– Taci!... taci!... lasciami stare... oggi non posso sentirli io questi discorsi. – Daniele, senza replicar altro, se ne andò.
Al desinare di famiglia non comparve Alessandro; rimase nella sua stanza a masticar veleno, ma la sera, per non udire i concerti d'una birraria vicina e gli evviva degli ufficiali austriaci, uscí di casa, andò pel paese, girando all'impazzata le strade, di dove fuggí, per non vedere qualche cosa di peggio. La banda, che sonava giojosa, fiaccole accese, una turba di soldati, a cui si mescolava qualche raro cittadino, qualche ufficiale colla moglie a fianco, vestita da festa; e a cui facean corteggio alquanti monelli di piazza.
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