Talché al sopravvenir della sera si sentí rifatta, e vedendo Alessandro che la vegliava con amore, gli porse una mano e gli sorrise con grazia.
In quel momento, nello scorgere la donna sua tanto patita, tanto cambiata, là in quel letto nuziale, dove l'aveva vista madre felice, cosparsa d'un ben altro pallore, languida d'un ben altro patimento, pieno di sante soddisfazioni, Alessandro fu colto da una pietà, da un affetto indicibile.
– Ti faccio patire eh? ti faccio morire... stolto che sono!... – e si pestava il petto, si metteva le mani nei capelli, – son io... son io la causa del tuo male.
– No! – disse Fiorenza.
– Sí, son io!
– No, – e dopo un breve silenzio: – ascolta, Alessandro, dammi una parola sacra.
– Di' tutto!
Fiorenza cominciò solennemente:
– Prometti che ti metterai in quiete, che non troverai piú da litigare con tuo padre, che ti rimetterai alla tua professione, e finiremo quest'inferno domestico, in mezzo a cui non si può piú vivere?
Alessandro stava perplesso: ella riprese, mostrandogli tornare inutile il malcontento, la vita torbida e il tormentarsi in famiglia.
– Hai fatto tutto quello che potevi: prima hai cospirato, quando non era permesso altro: hai scritti proclami, sparsi libri, ci sei entrato in conventicole, in ogni dimostrazione. T'han carcerato, e se non veniva il ventidue marzo ti toccava andare in fortezza. Venuto dunque il marzo, hai fatto il resto: t'han menato in processione per la città, hai chiamata la gente all'armi, hai mestato e rimestato per persuadere gli Austriaci a partire; dopo hai fatto il diavolo a quattro perché non tornassero: finché sei partito tu invece.
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