– Di che domandano?... sbagliano di certo... chi vogliono?
– Alessandro Rizio: ci apra subito – rispose con quella buona grazia, che va annessa a certi uffizi, un uomo.
– Ma cosa vogliono da lui? – mormorò con voce soffocata Fiorenza.
– Apra subito. – Ella, senza sapere che si facesse, rientrò e corse a chiamar la Lucietta, che, già spaventata, accorreva.
– Oh! Dio... sono venuti a prendere Alessandro... vacci tu... io andrò da lui.
Stava Alessandro in quel punto del sonno ancora non ben deciso fra la veglia ed il dormire; quando si crede d'esser padroni delle proprie idee, le quali han preso il sopravvento, e, maschere in demenza, ci guidano pel labirinto dei sogni.
Quei sogni erano mesti: tetro era lui nel quetarsi, tetra è per sé stessa la notte, e per ciò gli antichi, che votavano la mattina agli Dei celesti, votavano la sera a quelli infernali.
Alessandro, assopitosi dunque col pensiero, senza dubbio pei discorsi del dopo pranzo, alla battaglia di Novara, si trovò, tutto ad un punto, in un luogo desolato, di cui non vedeva il fondo, perduto in una fuga di gradazioni aeree: ivi, sopra un'altura, grave ma non ismarrito, co' suoi due figli al fianco, vedeva Carlo Alberto, fermo sopra un magnifico destriere, l'occhio fisso alla croce, suo astro; il braccio sollevato come la statua equestre d'un eroe, che ripone la spada nel fodero, ahimé... non perché ha compiuta l'impresa, ma perché non può piú ritentarla! però, mentre Alessandro sta muto in pianto a guardare, in quella semiluce fantastica delle visioni, il quadro immortale, ecco un effetto curioso, un tiro nefando, che gli guasta la suprema avvenenza di quella contemplazione; il severo viso del Re, i due figliuoli, quelle tre nobili figure insomma cambiarsi poco per volta, mostrare un ceffo tra lo stupido e il feroce; inarcare il braccio e tener nella mano, in luogo del brando, la frusta: una frustaccia che dimenano in aria, nell'atto che, curvi sulla sella, il kepì sulla nuca, e la bocca sgangheratamente aperta, urlano che cosa?
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