Ognuno, oppresso dal momentaneo trionfo della forza, stava a guardare dove andassero a finire quelle prodezze: la nobile pianta fulminata ancora si reggeva, mentre la immensa cuscuta tornava ad abbracciarla stretta, ne suggeva i succhi, la avvolgeva schiacciandola, essa noncurante per impotenza, nelle sue spire mortali. Apatia sdegnosa, fiera invidia dell'altrui bene, desiderio dell'altrui male: amarezza che non sospirava altro che stragi, rovine ed agonie. Sentimenti la di cui conoscenza è un triste privilegio della generazione, già in dileguo. Voglia il cielo che le generazioni avvenire non abbiano a sapere cosa fu quella vita; quell'abborrir di trovarsi con chi conculcava, quel non poter fuggire il proprio nido: quella trista passione, quel rodío profondo e tenace, in una parola quell'inferno!
– E partite solo? – domandò Fiorenza.
– Con chi dovrei partire? – domandò questi allora a Fiorenza, guardandola fermo in viso.
– Non avete vostro padre d'adozione?
– È morto.
– Ah! – esclamarono insieme Alessandro e Fiorenza – non s'è mai saputo niente.
– Egli stesso ha desiderato che si evitasse di parlare di lui in morte, come non voleva se ne parlasse in vita. Non chiamavate voi stessa, la nostra casa – il castello del deserto? – soggiunse in tuono sommesso e dolce Guido, che, in quel momento, non temè fare un'allusione alla fraterna confidenza con cui erano vissuti egli e la sposa d'Alessandro, in un intervallo della loro vita, ormai lontano e sepolto.
– È vero – disse Fiorenza. Ma in quel castello v'avea se ben ricordo, anco un'abitatrice.
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