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      Il meglio che potevano fare era d'intendersela cogli ultimi, e di un certo rispetto potevano godere rendendo a loro servizi di ogni genere occultandoli, servendoli in ogni guisa, pagando a loro un tributo proporzionato ai loro beni.
      C'era un altro modo di procurarselo il rispetto: procurarselo a difesa dei propri beni ed anche, volendolo, per assicurare altri lucri; il mezzo era quello di acquistarsi fama di mafioso col coraggio, colla solidarietà col delinquente, col rifiuto sistematico di cooperare colla polizia e colla magistratura nelle indagini sui reati.
      E il coraggio era piú apprezzato in basso, se era stato spiegato piú che contro i privati e i singoli cittadini, contro i campieri e contro i compagni d'armi.
      La fama di mafioso acquistata in quest'alterno modo era la piú legittima e la piú ammirata da tutti; e cosí talora il mafioso anche pei reati commessi trovava simpatia tra persone oneste, perché quei reati erano stati consumati a danno di altri peggiori malfattori impuniti perché protetti da potenti.
      Tutta la soma di questa organizzazione incivile, criminosa, pesava sul popolo lavoratore; i cui elementi piú arditi spesso dalla prepotenza altrui erano spinti fatalmente alla ribellione ed alimentavano nelle folle l'odio contro le classi superiori.
      Questo odio inestinguibile e giustificabile generò le insurrezioni agrarie ogni volta che si presentò favorevole l'occasione; perciò in tutti i moti politici, appena allentavasi il freno dell'autorità ed il popolo aveva la forza con sé, credeva di esercitare un diritto abbandonandosi a feroci vendette.


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La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi
(1860-1900)
di Napoleone Colajanni
pagine 91