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      E alla mafia si dettero tutti i ribelli, tutti gli offesi, tutte le vittime: sia attivamente, sia passivamente, occultando le gesta criminose e proteggendone, comunque, gli autori, creandole un ambiente favorevole.
      Sicché spesso la qualifica di mafioso nel passato non venne ritenuta offensiva; e mafioso nelle buone famiglie chiamavasi scherzevolmente qualunque ragazzo coraggioso, ardito, indipendente.
      Su questo fondo di giustizia sociale che servì a creare lo spirito della mafia e dette corpo alle sue manifestazioni s'intende che s'innestarono tutte le tendenze perverse, tutte le passioni losche, tutte le cause e gli incidenti della delinquenza volgare. Ma nell'insieme essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l'esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici.
      Ecco il criterio e la base medioevale giustamente segnalata dal Franchetti nella sua definizione.
      La mafia, in fine, rese i piú grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l'aristocrazia, che in massa era avversa ai Borboni, come notò Alessandro Tasca. I piú noti mafiosi furono i piú valorosi combattenti nelle cosidette squadre nel 1848; gli stessi mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo.


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La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi
(1860-1900)
di Napoleone Colajanni
pagine 91

   





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