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      Non è già incredulo re, o re largo di coscienza, che abbassi la pontificale superbia, ma l'infante don Carlo, che nella chiesa di Bari, vestendo abito canonicale, offizia tra canonici nel coro; che vestito d'umile sacco, lava nella chiesa de' pellegrini i piedi al povero; che serve a messa per acquistarne le indulgenze, che ogni anno modella e compone di sue mani le figure e la capanna del natale di Cristo; che crede alla santità vivente del padre Pepe gesuita e del padre Rocco domenicano, frati scaltri ed ambiziosi.
      XXXIII. Ho detto innanzi, che il pontefice Clemente XII temporeggiò fra le parti spagnuola ed alemanna, finché incerta pendeva la fortuna aspettando per favorire il favorito da lei. L'anno 1735, nel dì solenne di san Pietro, Carlo, già conquistatore sicuro e possessore delle due Sicilie, tutte le fortezze espugnate, spartite le insegne dell'impero, preparata la sua coronazione nella metropoli di Palermo, spedì ambasciatore al pontefice il duca Sforza Cesarini con la chinea e la somma di settemila ducati d'oro, tributo de' re di Napoli. Il giorno stesso il principe di Santa Croce ministro imperiale, offrì al pontefice il medesimo censo. La quale gara di obbedienza era finezza de' due re per ottenere, in argomento delle proprie ragioni sul contrastato regno, il suffragio del papa. Ma la guerra d'Italia era viva e dubbiosa; la chinea dell'infante una novità, quella di Cesare un uso: non potevasi accettar la prima senza pontificale manifesto, bastava per la seconda il silenzio; e fu accettata. Carlo ne sentì sdegno.
      E poco appresso scoppiò in Roma tumulto contro gli uffiziali spagnuoli e napoletani, che, mandati ad ingaggiar uomini per la milizia, e caduti in odio, furono minacciati, offesi, percossi, forzati a nascondersi, dalla inferocita plebe.


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Storia del reame di Napoli
di Pietro Colletta
pagine 963

   





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