Lo sdegno in Carlo rimase piuttosto ammorzato che spento.
E però il ministro Tanucci e parecchi Napoletani di alto ingegno crederono acconcio il tempo a ravvivare le ragioni dello Stato e del re: l'abate Genovesi, benché in molta giovinezza, chiaro per lettere e per virtù, dopo aver dimostrato quanta ricchezza le persone della Chiesa, povere per voti, consumavano, propose riforme giuste, pie, generose. Altri altro proposero; e la stessa città, per suppliche al re, pregava d'imporre sopra i beni e sudditi ecclesiastici le taglie comuni, e convertire in moneta i preziosi metalli che soperchiavano al culto di nostra santa ed umile religione. Mosso da tante voci ed argomenti, Carlo mandò a Roma suo legato monsignor Galliani, uomo di nobile ingegno e libero quanto i tempi comportavano, il quale esponesse al pontefice le richieste o pretensioni del re: nominare a' vescovadi e benefizi dei suoi regni; dare anch'egli, come i re potenti della cristianità, esclusione di un nome nel conclave; ridurre a minor numero i conventi di frati e monache; imporre alcuno impedimento agli acquisti, ed alcuna libertà a' beni, chiamati delle "mani-morte"; cessasse la giurdisdizione de' nunzi, il tribunale della Nunziatura si chiudesse.
Il papa, dubbioso e addolorato delle dimande, chiamò congregazione di cardinali, che tutte le rigettò come contrarie alle antiche ragioni della Santa Sede. L'ambasciatore non chetò; ma crescendo in pretensioni, chiese l'adempimento del decreto di Onorio II a pro di Ruggiero, però che da Ruggiero discendeva Carlo, e da Onorio Clemente. Rammentò altre concessioni di antichi pontefici ad antichi re delle Sicilie: mentre al bel dire del Galliani assistevano la potenza dei Borboni, la fortuna di Carlo, la decrepitezza di Clemente e 'l desiderio di giovare al suo nipote Corsini, ch'era in corte di Napoli, vago di andare viceré nella Sicilia, e forse pieno di più alte speranze.
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