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      XV. Le altre parti della economia pubblica maneggiava minor senno; Napoli, che aveva preceduto la Toscscana nello affrancarsi dalla Chiesa videsi da Pietro Leopoldo sopravanzata negli statuti dell'amministrazione. Benché lasciato libero alle comunità il modo di amministrarsi, e prescritto il sindacato, punite le infedeltà, ed eletti dal popolo ne' parlamenti di amministratori, i sindacatori, i giudici del conto; non di meno questi benefizi poco profittavano, confusi dalle stesse libertà, e però dall'ingegno vario, e dalle passioni fugaci degli amministratori e de' comuni; altri vivevano a catasto, altri a gabelle, altri a testatico; dove si preferivano le opere civili, e dove di pietà; là prevaleva il poco spendere, qua il troppo; le virtù di un anno parevano vizi l'anno appresso, e i disegni degli uni erano disfatti dagli altri; alla amministrazione mancava uniformità e perseveranza, quindi grandezza e durata. Il re prestò al comune di Pescocostanzo i danari onde ricomprarsi dall'avaro barone Pietro Enrico Piccolòmini, dicendo nella concessione del prestito: "acciò sottraggasi dalla servitù e dal giogo baronale"; ma quell'atto unico, transitorio, era segno non sustanza di prosperità.
      Le arti stavano soggette alle "fratrìe" ed a' consoli; il traffico interno alle annone, alle assise, a' privilegi baronali, ad alcuni resti di franchigie o immunità de' cherici, e soprattutto alla mano continua del Governo su le imprese o interessi de' privati. Ritornò libera la coltivazione del tabacco, ma per altre gravezze al vino, al sale, alla carta, a' libri. L'industria della seta, ingrandita nel regno di Carlo, eccitò l'avidità del successore; e messa tra gli arrendamenti del fisco; patì le condizioni della servitù: poco prodotto, estirpazione dei gelsi, decadenza delle fabbriche nazionali di seta e drappi.


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Storia del reame di Napoli
di Pietro Colletta
pagine 963

   





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