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      Il re con editto rispondendo al consiglio dichiarò: essere decoro del magistrato la certezza della giustizia, e, non, come pretenderebbe il supremo consiglio, il velo degli oracoli; spettare alla sovranità far nuove leggi, o chiarire i sensi oscuri delle antiche; spettare a' giudici eseguirle; i "responsi" de' dottori e gli "articoli" de' commentatori essere studi a' giudici, non leggi, stando le leggi nelle prammatiche.
      Quindi l'editto rigettava le eccezioni proposte, biasimava i ritardi all'adempimento del decreto, e chiudeva il dire come appresso: "Il re perdona nella umana fragilità e nelle assuefazioni del supremo consiglio i sofismi escogitati ed esposti nel suo foglio; spera che la obbedienza dei magistrati prevenga e disarmi la giustizia indivisibile dalla sovranità". Per lo stile minaccevole dell'editto la curia chetò, e i curiali impauriti si dissero persuasi; nessuno de' magistrati rassegnò l'uffizio; nessun partito estremo, che nella sconfitta onora l'umana dignità, fu praticato. E così da quel giorno, dimostrate le sentenze, la comune ragione migliorò.
      XXI. Antica prammatica de' principi aragonesi aveva stabilito nel regno il sindacato per gli amministratori del denaro pubblico e pe' magistrati; erano sindacatori nella città capitale gli Eletti delle piazze; nelle altre città e terre i cittadini scelti dal popolo in parlamento: durava per ogni anno il cimento quaranta giorni, venti a ricevere, venti a discutere le accuse, nel qual tempo l'uffiziale messo ad esperimento restava privo d'impiego e di autorità; a ciascuno, fin della plebe, era concesso accusarlo di fatta ingiustizia o di giustizia negata; se andava immune, lettere patenti commendavano la sua virtù, e se in contrario, aprivasi giudizio a suo danno.


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Storia del reame di Napoli
di Pietro Colletta
pagine 963

   





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