Parlavano a difesa, con poca speranza, gli avvocati, quando il presidente ruppe il discorso per leggere al pubblico un foglio or ora pervenutogli, ed era del re, che diceva:
Io sperava che gli accusati di congiura contro la mia persona fossero innocenti; ma con dolore ho inteso che il procurator generale abbia dimandato per tutti pene assai gravi. È forse vera la colpa, ed io, volendo conservarmi un raggio di speranza della loro innocenza, prevengo il voto del tribunale, fo la grazia agli accusati, e comando che, al giungere di questo foglio, si sciolga il giudizio e si facciano liberi quei miseri. E poiché trattasi d'insensato delitto contro di me, e non ancora è data la sentenza, io non offendo le leggi dello Stato se, non inteso il consiglio di grazia, fo uso del maggiore e migliore diritto della sovranità.
GIOACCHINO
Fu lieto il fine di quel giudizio quanto miserevole l'altro caso che narrerò. Era in Acerenza, città della Basilicata, un tal Rocco Sileo, bello e grande della persona, ma, per vecchiezza, curvo e bianco padre di figli e figliuole, con poca fortuna ed onesta fama. De' figli il primo, d'indole rea e malvagia, cominciò da giovinezza a commetter delitti, e l'amoroso padre, stando ancora in piedi le "Udienze" e gli "scrivani", ne redimeva la reità per danaro. Ma quegli, continuo al male, ritornava alla colpe, quanto l'altro, sollecito e costante, il difendeva, disperdendo il patrimonio della famiglia. Per grave misfatto, commesso l'anno 1809, di già cambiati codici e magistrati, il tribunale della provincia il condannò a morte, da eseguirsi in patria, innanzi alla propria casa. Ma la condanna restò sospesa dal ricorso in Cassazione; ed il padre, dopo di aver profuso cure e danaro, lasciò in Napoli un più giovane figlio col carico di avvertirlo celerissimamente della sentenza.
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