LIII. Le buone sorti di quell'isola si magnificavano in Napoli al cadere dell'anno 1813, quando la setta dei Carbonari, da tre anni venuta nel regno, erasi distesa in ogni luogo, in ogni ceto, nei disegni degli audaci, nelle credenze del volgo, ed era suo voto una Costituzione come la inglese, sola che in quel tempo le moltitudini tenessero in concetto di libertà. Il Governo di Sicilia, ad esempio dei Governi alemanni, e lord Bentinck, per proprio ingegno, ordirono segrete corrispondenze coi settari di Napoli, mandarono i libri delle nuove leggi siciliane, esaltavano la mutata politica del re, promettevano egual Costituzione al regno quando reggessero i Borboni; confronto vergognoso a Gioacchino, che aveva impedito per fino il vano Statuto di Baiona. E perciò, scoperti i maneggi tra i Carbonari e il nemico, il Governo napoletano doppiò vigilanza e rigori, proscrisse la setta, fece decreti minaccevoli di asprissime punizioni.
Maggior nerbo di Carboneria e corrispondenza più facile con la Sicilia era in Calabria, indi più grande la severità; pur questa volta affidata al generale Manhès. Per molte cure della Polizia, molte macchinazioni disvelate, formati i processi, ordinati i giudizi, le Commissioni militari risorte punivano di morte i settari. Primo della setta era un tal Capobianco, giovine potente, audace capitano delle milizie urbane nella sua terra, edificata come rocca sopra monti asprissimi della prima Calabria; e perciò, essendo difficile arrestarlo, si faceva sembiante di non crederlo reo, mentre egli, sospettoso e scaltro, sfuggiva le secrete insidie. Ma un giorno il generale Iannelli, simulandogli amicizia, lo invitò per lettere a convito, ch'egli, ad occasione di pubblica cerimonia, dava in Cosenza, capo della provincia, dicendogli che avrebbe compagni altri uffiziali delle milizie e le maggiori autorità civili ed ecclesiastiche.
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