Ma poiché sempre gli premeva il cuore il desiderio di non rompere a guerra con la Francia, lasciò in avanguardia contro l'esercito del viceré la legion tedesca, e prescrisse che nelle comandate operazioni di assedio non fossero primi i Napoletani ad accendere le artiglierie.
Ordinò l'esercito. Lui stesso capo di tre legioni di fanti, una di cavalieri, ventiduemila soldati, sessanta cannoni, attrezzi corrispondenti, nessuna provvisione, nessun tesoro, confidando nelle ricchezze d'Italia. Erano agli stipendi napoletani alcuni soldati francesi, molti uffiziali e colonnelli e generali. Gioacchino, volendo ritenerli perché ne pregiava il valore e l'esperienza, e credeva di attenuare il suo mancamento alla Francia spandendo l'esempio sopra gran numero di Francesi, gli lusingava in vario modo; fingeva con essi che era infingimento l'alleanza con l'Austria, sovraponeva menzogne a menzogne, s'intrigava, screditavasi. I generali napoletani, dall'opposta parte, bramavano che quei Francesi partissero, perché in essi vedevano i sostenitori degli ondeggiamenti del re e gl'inciampi alla pienezza della propria potenza ed ambizione; pregavano Gioacchino a sgomberarne l'esercito; mormoravano in disparte; generavano contumacia e scandalo. E quei Francesi, mossi da interessi contrari, vacillarono lungo tempo; ed infine i più amanti di onore e di patria si partirono, altri rimasero vergognosi ed afflitti. Dei primi citerò un solo per la singolarità de' suoi casi: il colonnello Chevalier, caro a Murat, andò l'ultimo da disertore, lasciando un foglio nella notte e fuggendo. Ma il giugner tardi fu cagione di motteggi tra gli uffiziali dell'opposto campo, ed egli, per mondarsi dello indugio, chiese di combattere all'alba dello stesso giorno, e primo tra i primi attaccò i Tedeschi, e cadde ucciso.
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