E così, più in alto, l'imperatore d'Austria, che aveva promesse sollecite ratifiche di trattato con Napoli, lasciava correre i mesi senza che il ratificasse, e dall'altra parte il re Murat, alleato dell'Austria e dell'Inghilterra, desiderava il trionfo della Francia ed attendeva o sperava l'opportunità di ricongiungersi a lei. Lo stato d'Italia in quel tempo non era di guerra, ma di politica e d'inganno armato; in ogni atto, in ogni intenzione dei reggitori de' regni e degli eserciti o traspariva o si nascondeva un mancamento di fede: i peccati erano universali; ma incerto la fortuna chi premierebbe.
I popoli, cauti, obbedivano, non operavano. Gioacchino, facendo dire esser giunto il momento in cui gl'Italiani si unirebbero sotto la stessa insegna, dava agli Stati occupati forma ed ordini comuni di governo. Bellegarde, al tempo stesso, avvertiva gl'Italiani esser proponimento de' re confederati restituire gli antichi Stati al re di Sardegna, alla Casa d'Este, al gran duca di Toscana ed al papa. Il viceré sull'altra sponda del Mincio bandiva le vittorie dell'imperatore Napoleone a Nangis, a Montereau, ed accertava i popoli che le sorti d'Italia stavano in mano alla Francia. E questa Italia, in tanti modi insidiata, scontenta del presente, certa di servitù per lo avvenire, tenevasi inquieta, ma tacita. Solamente in Napoli, al mutar di politica, al vedere i porti e i mercati abbondare di merci inglesi, rare e desiderate per otto anni, cambiarle co' prodotti della terra, che quasi senza prezzo marcivano, andare in Sicilia e venirne senza pena o pericolo, sentire il proprio re e le proprie schiere potenti e posseditrici di vari regni, il popolo, tra maraviglie, guadagni e grandezze, rallegra-vasi e sperava.
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