LXXVII. La idea, che oggi dicono piano di guerra, tenuta occulta da Gioacchino, si mostrò combattendo. L'esercito destinato all'impresa, benché, per grido, di cinquantaduemila soldati, era nel fatto di trentacinquemila, e cinquemila cavalli e sessanta cannoni. Si esagerava il vero per gli usati inganni, e per rassicurare i popoli d'Italia, che si speravano partigiani. Né maggiore potev'essere, perché abbisognavano molte schiere nel regno a difenderlo da' temuti assalti e maneggi del re di Sicilia; e perché la milizia napoletana non era veramente così poderosa come Gioacchino affermava, né tutta buona alla guerra. Il quale esercito attivo era diviso in due parti, Guardia e linea; quella componendosi di due legioni, una di fanti, altra di cavalieri (seimila soldati); questa di quattro legioni, una di cavalieri, tre di fanti (ventinovemila combattenti): comandavano le legioni della Guardia i generali Pignatelli Strongoli e Livron; quelle della linea i generali Carascosa, d'Ambrosie, Lecchi e Rossetti; il generale Millet era capo dello Stato maggiore, dirigeva il Genio il generale Colletta, l'Artiglieria il generale Pedrinelli; teneva il comando supremo il re. L'artiglieria, i zappatori, la cavalleria, armi che richieggono studio d'arte e lungo uso di guerra, erano meno buone della infanteria. De' fanti, tre reggimenti venivano dagli uomini di carceri e di galee; dieci di venticinque generali, tredici di ventisette colonnelli erano francesi, e le recenti discordie tra stranieri e nazionali avevano lasciato germi scambievoli d'odio e sospetto. La disciplina era debole e varia, le armi scarse, le amministrazioni poco fedeli, nullo il tesoro, aspettando lo fornissero i tributi de' paesi vinti.
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