XCVI. In quei giorni il commodoro inglese Campbell, con due vascelli e due fregate scorrendo da nemico il golfo di Napoli, spedì ambasciatore alla reggente per dirle che avrebbe tirati a migliaia razzi sulla città se non gli fossero date, a riscatto di guerra, le navi e tutti gli attrezzi di marina ch'erano negli arsenali regi. La reggente chiamò a consiglio i ministri ed alcuni di maggior grido consiglieri di Stato e magistrati, espose il caso. Il ministro di Polizia denunziava che, già sparse nella città le minacce del commodoro e per timore e malizia amplificati i pericoli, a' primi assalti sarebbe certo, e forse irreparabile, un tumulto di popolo; l'intendente pregava pace. Uno dei consiglieri, generale allora allora venuto dall'esercito, dimostrò la superiorità dei nostri mezzi di guerra, soggiunse che il Campbell o non avrebbe osato di avvicinarsi, o sarebbe stato offeso a dieci doppi dalle batterie della costa; e che la temeraria dimanda essendo fidata al nostro timore, a noi importava rigettarla. Altri seguivano l'animosa sentenza; ma la reggente disse: - Che sebben vano il pericolo, era vero il timore della città, che bisognava non accrescere il numero dei nemici, e togliere a Napoli occasione di agitarsi; che Campbell ed il suo Governo (se questi approvasse le offese) si avessero in faccia al mondo, dopo la taccia di aver mancato alla giurata tregua, l'altra di abusare dei terrori di un popolo per frodargli navi ed attrezzi, e che solo ed ultimo ricovero contro la ingiustizia potente è la istoria. - Così ella disse; ma nascose il desiderio di patteggiare col commodoro il ritorno in Francia di lei e della sua famiglia sopra vascello inglese.
Diede carico dell'accordo al principe di Cariati, che, seguace nel Consiglio dell'avviso più forte, andò a mal grado a trattar pace coll'insolente inglese; ma buon per noi ch'egli andasse, perocché al primo incontro rivelò il parere del Consiglio, e l'avversario, in quei detti riconoscendo il vero, fu nei patti cauto e discreto.
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