Quegli dunque riferì di Gioacchino il proponimento, le speranze, gli apparecchi e le mosse: ma il Governo nulla faceva in difesa, ignorando il luogo del disegnato sbarco e temendo divolgare i pensieri di Gioacchino nel regno, dov'erano molti ed audaci i suoi partigiani, pochi e deboli i borbonici, e già mancate le speranze che il ritorno dell'antico re aveva suscitate nei creduli ed inesperti.
Per sei dì l'armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre giorni; due legni, l'uno dei quali tenea Gioacchino, erravano nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocché quelle armi non assai potenti al successo, né così deboli da restar subito oppresse, bastavano a versare nel regno discordie civili, tirannide e lutto. L'animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi, disperato ed audace, stabilì di approdare al Pizzo per muovere con ventotto seguaci alla conquista di un regno.
XIV. Era l'8 d'ottobre, dì festivo, e le milizie urbane stavano schierate ad esercizio nella piazza, quando, giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i suoi gridarono: "Viva il re Murat". Alla voce rimasero muti i circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità dell'impresa. Murat, viste le fredde accoglienze, accelerò i passi verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch'egli sperava amica, non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano Trentacapilli ed un agente del duca dell'Infantado, devoti ai Borboni, questi per genio, e quegli per antichi ed atroci servigi, uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e scaricano sopra di lui archibugiate.
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