Egli si arresta e, non con l'armi, co' saluti, risponde. Crebbe per l'impunità l'animo ai vili: tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si dispongono gli altri a combattere, ma Gioacchino lo vieta, e col cenno e col braccio lo impedisce.
Ingrossando le nemiche torme, ingombrato d'esse il terreno, chiusa la strada, non offre scampo che il mare, ma balze alpestri si frappongono; eppure Gioacchino vi si precipita, ed arrivando al lido vede la sua barca veleggiare da lunge. Ad alta voce chiama Barbarà (era il nome del condottiero); ma quegli l'ode e più fugge per far guadagno delle ricche sue spoglie: ladro ed ingrato. Gioacchino, regnando, lo aveva tratto dalla infamia di corsaro e, benché maltese, ammesso nella sua marina e sollevato in breve spazio a capitano di fregata, cavaliere e barone. Gioacchino, disperato di quel soccorso, vuole tirare in mare piccolo naviglio che è sulla spiaggia, ma forza d'uomo non basta, e mentre si affatica, sopragiunge Trentacapilli co' suoi molti; lo accerchiano, lo trattengono, gli strappano i gioielli che portava al cappello e sul petto, lo feriscono in viso; e con atti ed ingiurie in mille modi l'offendono; fu quello il momento dell'infima sua fortuna, perché gli oltraggi di villana plebaglia sono più duri che morte. Così sfregiato lo menarono in carcere nel piccolo castello, insieme ai compagni, che avean presi e maltrattati.
Prima la fama e poi lettere annunziarono alle autorità della provincia que' fatti, né furono creduti. Comandava nelle Calabrie il general Nunziante, che spedì al Pizzo il capitano Sfratti con alquanti soldati. Sfratti si recò al castello, ed imprese a scrivere i nomi de' prigioni, egli medesimo non credendo che vi stesse Gioacchino; dopo due, dimandò al terzo chi fosse, e quegli: - Gioacchino Murat re di Napoli.
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