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      Trovandolo in quell'atto, il capitano Stratti, suo benevolo custode, non osava parlargli; ma Gioacchino gli disse: - Nel Pizzo è gioia la mia sventura (il suppose o il sapeva). E che ho fatto io a' Napoletani per avergli nemici? Ho speso a loro pro tutto il frutto di lunghe fatiche e di guerra, e lascio povera la mia famiglia. Quanto è di libero nei codici, è opera mia. Io diedi fama all'esercito, grado alla nazione fra le più potenti d'Europa. Io per amor di voi dimenticai ogni altro affetto; fui ingrato a' Francesi, che mi avevano guidato sul trono, donde io scendo senza tema o rimorso. Alla tragedia del duca di Enghien, che il re Ferdinando oggi vendica con altra tragedia, io non presi parte, e lo giuro a quel Dio che in breve mi terrà nel suo cospetto. -Tacque per alcuni istanti, e dipoi: - Capitano Stratti, sento bisogno di essere solo. Io vi rendo grazie dell'amore mostratomi nella mia sventura, né in altro modo posso provarvi la mia riconoscenza che confessandola. Siate felice. - Così Gioacchino; e lo Stratti ubbidiente il lasciava, ma piangendo.
      Indi a poco, non ancora palese la condanna, entrò il prete Masdea, e disse: - Sire, è questa la seconda volta che io le parlo. Quando V. M. venne al Pizzo, sono cinque anni, io le dimandai un soccorso per compiere le fabbriche della nostra chiesa, ed ella il concesse più largo delle speranze. Non dunque sfortunata è la mia voce appo lei, ed oggi ho fede che ascolterà le mie preghiere, solamente rivolte al riposo eterno dell'anima. - Compié Gioacchino gli atti di cristiano con filosofica rassegnazione, ed a dimanda del Masdea scrisse in idioma francese: -Dichiaro di morire da buon cristiano, G. M.
      XVI. Opere cosi pietose si praticavano in una camera del castello; ma spietatissime in altra, dove il tribunale militare proferiva: che Gioacchino Murat, tornato per la sorte delle armi privato quale nacque, venne a temeraria impresa con ventotto compagni, confidando, non già nella guerra, ma nei tumulti; che spinse il popolo a ribellarsi; che offese la legittima sovranità; che tentò lo sconvolgimento del regno e dell'Italia; e che perciò, nemico pubblico, era condannato a morire, in forza di legge del decennio mantenuta in vigore.


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Storia del reame di Napoli
di Pietro Colletta
pagine 963

   





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