Il Governo impedì l'uscita delle granaglie, sminuì, poi tolse ogni dazio all'entrata, e infine la invitò con ricchi premi; de' quali godendo, come vuol ragione, i venditori, non i consumatori del genere premiato, si accrebbe la fortuna dei commercianti, ma niun sollievo si arrecò a' poveri. Il monopolio aggravò la penuria; il Governo non seppe disnodarlo; e le gravi somme che profuse andarono contro i suoi disegni o a vuoto. Durata due anni la fame, sparita al terzo per copiosi ricolti, molto vecchio grano era ancora in serbo; parecchi negozianti fallirono; l'avidità fu punita. Compagne della fame furono le febbri, che, apprese alle prigioni e avventatesi al popolo, divennero mortali e contagiose. La plebe, sempre menata da ignoranza e superstizioni, credeva quella peste, quel foco, la penuria, la febbre segni di collera divina, e castigo a' peccati del Pizzo, sì che al Governo derivava odio, non giusto, ma vero.
In quel tempo il re sciolse un voto. Udendo, quando egli era fuggitivo in Sicilia, che in Napoli, per ingrandire il fôro del regal palagio e far loco ad un Panteon, si demoliva la chiesa di San Francesco da Paola, egli fece voto di rialzarla più decorosa se a Dio piacesse di ricondurlo sul perduto trono. Esaudito nel 1815, decretò riedificarsi quel tempio, chiamando a gara d'ingegno gli architetti d'Italia: e prescelto il disegno dei napoletani Fazio e Peruta, gli autori ne attendevano il promesso premio e la sperata gloria, quando fu commessa l'opera ad altro architetto, Bianchi di Lugano, ignoto ai concorrenti ed alla fama. Fu posta la prima pietra il 17 giugno dell'anno 1816 dal re medesimo, con pubblica e sacra cerimonia; e quindi, proseguendo il lavoro, furono adoperati i migliori ingegni napoletani nella scultura e pittura; e il Landi e il Camuccini, che hanno fama in Italia ed oltr'Alpi, dipinsero due tele di evangelica istoria.
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