IX. Il giorno 9, trionfante per il campo e festivo al pubblico, mesto ai Borboni, dubbioso a molti, era diversamente aspettato: chi lo diceva termine, chi principio della rivoluzione; altri credeva sollevata l'autorità del re; altri appieno depressa; i timidi e maligni spargevano esser finta la modestia dei carbonari per giungere facilmente dove larga materia troverebbero alla rapina ed alle stragi. Fra pensieri ed affetti così vari, venuto quel giorno e suonata l'ora prefissa, procedono le schiere dal campo alla città. N'è avvertita la reggia, il re si trattiene nei più remoti penetrali, contigui al castello; il Vicario in abito da cerimonia sta colla famiglia nella stanza del trono, e dietro a lui la Giunta, i ministri, i cortigiani; mancano solamente, benché gentiluomini di Corte, Medici, Circello, Tommasi. I suoni militari avvisano l'arrivo della prima schiera, e subito per onorarla va la Corte ai balconi, ed i Reali, come in segno di gioia, fanno sventolar i lini che poco innanzi avevano rasciugato lagrime di tristezza.
Un drappello dello "squadrone sacro" (così chiamarono, dopo il successo, la compagnia disertata da Nola) precedeva la colonna, seguivano le bande musicali, poscia il general Pepe, che sconciamente imitava le fogge e il gesto del re Gioacchino; stavano a' suoi fianchi il generale Napoletani e De Concilj: succedevano le schiere ordinate, tra le quali alcuni battaglioni che il giorno innanzi, per vaghezza o comando, rifuggirono al campo; l'ultima schiera della prima mostra era il superbo reggimento dei dragoni. Profondo sentimento di alcun fallo pungeva la coscienza di queste genti, e la quasi universale riprovazione temperava gli applausi; si vedeva in quella pompa il giuramento mancato, calpestata la disciplina, trasfigurata la natura delle milizie, e di tante colpe, non il castigo, ma il trionfo.
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