XIV. Era vasto il movimento, ma senza scopo. I nobili venuti di Napoli, adunandosi con altri e concordando nella Costituzione dell'anno 12, ne lanciarono fra i tumulti la voce che restò schernita; perocché i settari e liberali della Sicilia presentivano le dolcezze della Costituzione spagnola. Caduta la prima speranza, propagarono l'altra voce d'"indipendenza", e fu accolta perché grata a tutti gli uomini, più agl'isolani, gratissima agli abitanti della Sicilia, cui francarsi da noi era desiderio antico e giusto. "Dio, re, Costituzione di Spagna ed indipendenza" fu quindi il motto della rivoluzione di Palermo, così che ai tre nastri della setta aggiunsero il quarto di color giallo, patrio colore. Il luogotenente Naselli costretto ad operare, trasportato dagli avvenimenti, fece, disfece; ondeggiava fra pensieri opposti, sempre al peggio appigliavasi. Diede, richiesto, al popolo il solo forte della città, Castellamare; ma indi a poco, mutato pensiero, e non bastando a riaverlo le dimande o l'autorità, comandò di espugnarlo. Tre volte le milizie lo assaltarono, tre volte furono respinte; perderono uomini e credito, crebbe della plebaglia l'audacia e lo sdegno. Naselli, sentita la sua debolezza, nominò al governo della città una giunta di nobili, che in breve fu dispregiata, perché le derivazioni di cadente autorità sono inferme come la origine, solamente valevoli ad accelerare i precipizi comuni.
Soperchiare ogni legittimo potere, sconoscere i magistrati, calpestare le leggi, opprimere, imprigionare le milizie, schiudere le carceri e le galere, abbassare le bandiere del re, rovesciar le sue statue, o mutilarle, bruciar le effigie, saccheggiar la reggia, devastar le Delizie; in tutte le guise offendere la sovranità, oltraggiare il sovrano, furono la ribellione di un giorno.
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