Poscia il general Pepe rassegnò il comando dell'esercito, e dal re n'ebbe lode. Ed il duca di Calabria, qual figlio, drizzò discorso al padre, che ragionava, non già di politica o di regno, ma della gratitudine sua e della sua stirpe; adombrando che solo per la Costituzione poteva esser salda la dinastia. Dopo ciò, il re dichiarò aperto il Parlamento nazionale dell'anno 20, e partì. Si ripeterono al suo muovere i voti del pubblico; tanto che egli non era più nella chiesa, ed il grido di plauso e di gioia si prolungava. Ma il cielo, che nel mattino era sereno, all'uscir del corteggio annebbiò; si fe' più scuro, e quando il re giurava, si addensarono le nubi, e cadde stemperata pioggia. Fu caso; ma superstizioso volgo diceva che Iddio, antivedendo l'avvenire, cruccioso de' preparati spergiuri, oscurasse improvvisamente i luminosi spettacoli della natura.
XVIII. Convocato il Parlamento, fu cassa la Giunta di governo, della quale si lamentava il popolo, accusatore instancabile dei governanti; incolpandoli delle sue sofferenze, benché le cagioni fossero più potenti della sapienza e dell'arte di governo. Nel Parlamento fissarono gli sguardi il re, il Vicario, i ministri, i moderati, gli eccessivi, per indagar lo spirito di quella congrega, e farne guida chi di regno, chi di salvezza, chi di ambizione, e chi d'inganni. Presto spiacque ai seguaci delle parti estreme, chiamandola demagogica gli assoluti, servile gli sfrenati, dissoluta i ministri, ministeriale i dissoluti. Le quali ingiurie si volgevano in lode; però che dove le passioni opposte trasmodano, gli uomini giusti, che stanno in mezzo, dagli uni e gli altri sono maledetti. Ed oltraciò in quella libertà nuova, mancando l'abito del dir franco, spesso scorreva in licenzioso; e, mancando la pazienza delle scoperte confutazioni, ne indispettivano i grandi e i superbi.
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