In quel mezzo il capo della Polizia Borrelli, che ad un tempo era vicepresidente del Parlamento, e, come innanzi ho detto, dirigeva, per suoi ministri, la Carboneria, disponitore di tante forze, vedendo in mano al re nel presente gli impieghi e le ricchezze, o, nel possibile rovesciare di fortuna, le persecuzioni e le condanne, attese ad ingraziarsi ai principi coll'arte più valida sopra i timidi, atterrire e rassicurare. Finse che un Paladini, avvocato, e per natura impetuoso, congiurasse con altri ad imprigionare il re, il Vicario, tutti della Casa, menarli in Melfi, città forte della Basilicata, e tenerli guardati sino a che la rivoluzione di Napoli fosse riconosciuta da' potentati stranieri. Fece chiudere in carcere il Paladini e i disegnati compagni, affermò che per documenti era chiaro il delitto, ottenne il guiderdone di grazia dalla regia famiglia; e quando il giudizio ebbe liberati quegl'innocenti, egli fece credere ingiusta la sentenza, forzata, per timore che i giudici avevano dei congiurati. Paladini, che lo accusò di calunnia, viste indi a poco peggiorar le sorti dello Stato, con foglio pubblico dichiarò sé veramente innocente, Borrelli veramente calunniatore; ma, non volendo aggiungere alle pubbliche inquietudini le private discordie, ritirava, per amor di patria, l'accusa, e rimetteva l'ingiuria e la colpa. Altre volte il Borrelli diceva al Vicario stare in pericolo la vita di lui e del re, raddoppiava le guardie, accresceva i provvedimenti, concertava le simiglianze della verità, ed a notte avanzata, con viso allegro, andava in Corte a rassicurare del pericolo superato i timidi principi. Quegli artifizi medesimi ordiva per gli amici del re, sì che il Medici, il Tommasi, l'Ascoli, il Sangro, ingannati e creduli, si tenevano debitori di vita al Borrelli.
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