Citava in prova i fatti di Pontecorvo e Benevento, due città del pontefice nel seno del regno, che, ribellatesi e presa la Costituzione di Spagna, chiesero d'incorporarsi al reame di Napoli; rifiutate, pretesero di confederarsi, offerendo danari, armi e combattenti; rifiutate di nuovo, pregarono di essere protette. Il Governo di Napoli rispondeva non poter trattare le cose degli Stati romani che solamente col sovrano pontefice. Inutile, o forse dannosa modestia, conosciuta dai principi d'Italia e da' congregati.
In quel tempo un delitto privato ebbe pretesto ad effetti pubblici. Era in Napoli un Giampietro, in gioventù avvocato, caldo ed onesto partigiano di monarchia, amante dei Borboni, esiliato perciò dal re Giuseppe, richiamato da Gioacchino, intemerato sotto i re francesi. Al 1815 le sue affezioni trionfarono; ma non però il Governo gli diede impiego, e della ingrata dimenticanza egli si dolse. Due anni appresso fu nominato prefetto, e poi, come ho narrato, direttore di Polizia; le quali cariche, per sé malefiche, in tempi difficili e corrotti, gli procacciarono numerosi nemici. Vero è che molti settari erano stati per suo comandò imprigionati o sbanditi, senza giudizio, senza difesa: pratiche inique, infeste all'innocenza, infeste per fino alla colpa, grate o necessarie ai governi assoluti. Per la rivoluzione di luglio tornarono potenti questi afflitti da lui; tornò egli privato ed oscuro, vivendo tra pochi amici e numerosa famiglia. Una notte, uomini armati, che si dissero della giustizia, andarono in sua casa; ed il capo impose a Giampietro di seguirlo: ma benché autorevole fosse il comando, la voce balbutiva, ed il sollecitare udivasi ansante come di misfatto, non riposato come di servizio e di zelo; mentre i compagni, evitando studiosamente la luce, nascondevano il viso alla famiglia ed ai famigliari.
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