Ed infine un gran campo sulla riva del Faro accoglierebbe l'esercito per passare in Sicilia, donde poi, ristorato ed accresciuto, tornerebbe alle sorti varie della guerra. Comprendevano quest'ultimo campo le fortificazioni un dì erette da' Francesi nella Calabria, dagl'Inglesi nella Sicilia, contraposte e per dieci anni nemiche, serbando ancora i segni delle scambievoli offese.
Forse i dotti della guerra moderna biasimeranno il gran numero degl'inalzati forti, le tante guernigioni, le spicciolate difese, e però mi è d'uopo rivelar qual era ne' disegni del Consiglio l'intendimento di quella guerra. Un solo de' generali, Guglielmo Pepe, vedeva nelle nostre milizie, vecchie o recenti, zelo e valore invincibile; ma gli altri più esperti dell'indole napoletana, e meno ebbri di temeraria grandezza, sapendo nuovo l'esercito, debole la disciplina, temevano che i soldati si smarrissero all'inusitato aspetto e romore delle armi; e poiché il nemico a gran giornate procedeva verso il regno, e le nostre schiere dovevano al tempo stesso combatterlo ed agguerrirsi, erano vantaggi per noi guadagnar tempo, esporre i contrari allo impedimento ed alle perdite di cento assedi, obbligarli a combattimenti piccoli e continui, avvezzar l'occhio e 'l pensiero de' nostri militi ai cimenti del campo. Ed oltraciò la nostra guerra era nazionale, o nulla; che non potevamo sperar trionfi di Austerlitz o Marengo, ma il vincer lento de' popoli. Bisognavano perciò luoghi forti, che a' cittadini armati dessero opportunità di sorprese, appoggio negli scontri, ricoveri nelle sventure; e tali che si aiutassero a vicenda e si collegassero ad alcuni prestabiliti centri di operazioni. Erano centri Civitella, Chieti ed Aquila negli Abruzzi, Montecassino e Capua in Terra di Lavoro, Sant'Elmo in Napoli, Ariano in Puglia, Tiriolo in Calabria; ne' quali accampavano stuoli numerosi, che secondo i casi assalterebbero il nemico, correrebbero le campagne, si porrebbero sopra i monti a mostra e minaccia.
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