Perciò le opere d'Itri si abbandonarono, Gaeta si chiuse in assedio, il ponte sul Garigliano fu scomposto, le fortificazioni abbattute; i campi di Mignano e Cassano per incendio distrutti, colle macchine di guerra, i carretti ed ogni altro impedimento al precipitoso ritorno.
Al tempo stesso, nel Parlamento, sentite le sventure di Abruzzo, e svanite le speranze di libertà, si decretò un indirizzo al re, umile, sottomesso, le cui prime righe dimostravano l'innocenza di quel consesso nei fatti della rivoluzione. Era mutato il linguaggio, solito stile di sì fatte congreghe, audaci nella sicurezza, timide ne' pericoli, sempre giovevoli a consigliare riposato governo, sempre dannose a reggere lo Stato fra le tempeste: popolo fra le venture, plebe ne' disastri. Quel foglio ed una lettera del reggente al re, esortatrice di bene per il regno, furono portate dal generale Fardella, nominato messo ed oratore a pro di Napoli. Pendeva il reggente fra i pericoli dell'avvenire e del presente; però che lo spaventavano le vendette del padre e de' re alleati, quanto le disperazioni de' settari. Ma i settari più di ogni altro paventavano, e chi di loro prendeva rifugio, chi lo preparava, fuorché i capi, che, già da lungo tempo servi della Polizia e del reggente, ora, doppiando servigi e cure, obbedivano ed indovinavano le voglie del re e del figlio, strascinavano più che mai e tradivano gl'ingannati compagni. E nel campo i generali diffidavano dei soldati, i soldati de' generali; gli uni e gli altri vedevano impossibile il vincere, impossibile la pace; credevano colpa ogni virtù, discolpe i mancamenti. In tanta abbiettezza dei principali operanti, il senno di governo si perdé: non si reggeva, non si imperava; le sorti della nazione stavano in mano al nemico.
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