Così che, volendo rappresentare ne' miei racconti la scena continua del popolo, non ho parlato di quelle leggi allorché inavvertite passavano, e disegnai di trattarne in questo loco, cioè quando furono intese e compiante.
A rifare ed a migliorare le instituzioni gareggiarono il Ministero e il Parlamento. Ho riferito nel precedente libro i mali prodotti dal genio della novità; qui dirò i beni, godendo a laudare le geste e gli uomini meritevoli. Il duca di Campochiaro fu ministro degli Affari esteri. Destreggiò colle Corti nemiche: ma non val destrezza dove soperchia la contraria forza: nulla ottenne, lasciò il Ministero. Gli successe il duca del Gallo, che ne' consigli e nelle opere fu sagace, fido e anch'egli sventurato: nelle grandi quistioni di regno, accompagnando il re a Laybach, riferendo in Parlamento, consultando nel congresso dei ministri, fu per i partiti più liberi ed animosi. Pure lo morse la maldicenza, mostro cieco e rabbioso, nato di plebe, peste d'Italia.
Fu ministro di Giustizia il conte Ricciardi, già chiaro sotto i regni di Giuseppe e Gioacchino. I codici non abbisognavano di riforma, e si sperava tempo più riposato per discutere ogni legge; perciò providde a' bisogni presenti della giustizia; vidde che le era intoppo la setta dei Carbonari, e due volte ne propose lo scioglimento, ma invano; però che si opponevano al buon disegno la timidezza de' principi, la timidezza o le affezioni dei deputati al Parlamento, il numero e la potenza dei settari. Indi propose la ricomposizione de' magistrati, però che ve n'era degl'inabili alle instituzioni moderne, o incalliti alle passate, o troppo gravi di età, o scelti senza merito, per favore, quando la Casa de' Borboni tornò a questo regno.
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