Letta la sentenza, da eseguirsi tra poche ore, i condannati a morire furono condotti in luogo sacro per gli ultimi conforti di religione.
Era tra loro il colonnello Tupputi, chiaro nelle armi, al quale si era promessa sposa la marchesa Mesuraca, di fresca età, di gentil persona, nobile, ricca. Ella, poi che udì la condanna, andò sollecita per dimandar grazia alla principessa Floridia, moglie del re. Il cordoglio di lei, il nome, la famiglia, la pietà della inchiesta mossero la gentildonna a pregare il marito, il quale, avendo in animo di campar dalla morte i condannati, fuorché i due primi, rispose: farebbe grazia. La principessa ritornò alla misera, che incerta ed ansante aspettava; e quella, inteso il felice annunzio, corse, anzi fuggì verso il carcere, ed arrivata gridò ripetute volte: - Tupputi, la grazia è fatta. - Ma gl'infelici non udivano quelle voci, perciocché la cappella del mesto uffizio sta in loco recondito, lontano dalla porta e dalle strade. Avvertita di ciò la Mesuraca, pregò i custodi e le guardie, offrì larga mercede a chi primo giungesse coll'avviso; ma tutti rifiutavano, impediti a penetrare in quel segreto di religione e di spavento. Così che disperata si aggirava intorno al vasto edificio della Vicarìa, e dovunque vedeva o finestra o spiraglio, gridava con voce altissima e pregava il popolo a gridar seco: - Tupputi, Celentani, Gaston, la grazia è fatta. - Tanto romore, tanta pietà produssero l'effetto; Tupputi e gli altri furono avvisati della ottenuta salvezza; e per molte vie ritornò al pubblico l'annunzio che i condannati n'erano intesi ed allegri. Allora cessarono le voci e i moti della Mesuraca, ma le forze, sino a quel punto sostenute dall'ansietà, le mancarono; e dalle braccia del popolo fu trasportata nella nobil casa del padre.
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