– O mamma mia, aiutatemi... perché muoio!
Poi cadde disteso sulla rena del lido.
Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe e in pochi minuti non si videro più.
Ma Pinocchio rimase lì, e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva:
– Eugenio!... povero Eugenio mio!... apri gli occhi, e guardami!... Perché non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!... Apri gli occhi, Eugenio... Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me... O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?... Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove andrò a nascondermi?... Oh! quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!... Perché ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione?... E il maestro me l’aveva detto!... e la mia mamma me lo aveva ripetuto: «Guàrdati dai cattivi compagni!». Ma io sono un testardo... un caparbiaccio... lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio!... E dopo mi tocca a scontarle... E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me?...
E Pinocchio continuava a piangere, e berciare, a darsi pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio: quando sentì a un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.
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