Una cosa che mi ha sempre inspirato uno spavento indicibile, e mi ha preservata dal peccato capitale - non compreso fra i sette condannati dalla Santa Chiesa - di far gemere i torchi, è la critica.
L'idea di quei giudici ignoti, che sezionano un lavoro, lo tagliano, lo spolpano, lo analizzano, lo lambiccano sotto gli occhi dell'autore, senza commoversi menomamente allo strazio del suo cuore paterno, mi mette nello stato di sgomento d'un povero scolaretto, il quale deve esporre la sua pagina, il giorno degli esami, ad una Commissione esaminatrice, che non si compone dei suoi maestri, che gli è affatto ignota, che lui considera come un tribunale venerabile e pauroso.
Ora, il genere di libro che mi disponevo a scrivere doveva avere per critici naturali le signore. E però, dato anche che il tribunale supremo delle appendici di giornali avesse voluto scendere ad occuparsi di simile inezia, avrebbe sempre dovuto consultare su molti punti un giurì di signore, prima di pronunciare il suo terribile verdetto.
Ed io aveva tanta fede nell'indulgenza delle signore, che ne presi coraggio, ed accettai l'incarico.
Ai tempi remoti della mia giovinezza, non esisteva ancora il bel Galateo di Melchiorre Gioia pubblicato sul finire del secolo passato. - E fra tutti gli altri libri dello stesso genere, pubblicati prima e dopo di quello, l'unico usato generalmente, era quello di Monsignor Della Casa, un vero gioiello di spirito, reso anche più ameno dallo stile candidamente ricercato e solenne, del cinquecento.
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