Il lutto che si usa da noi è scarso.
Una vedova, un vedovo, parlo della Lombardia, portano il lutto un anno. Un anno! Tutti gli anni del nostro avvenire che avevamo promessi, giurati ad uno sposo, glieli ritogliamo, perchè la sventura l'ha colpito, perchè non è più a pagarceli con altrettanto del suo tempo, del suo amore.
Un anno solo! e dopo un anno le vedove possono danzare, i vedovi possono vestire la casacca d'arlecchino. Chi muor muore, e chi vive si fa cuore. Oh! chi mi rende l'eroica poesia del rogo, e le vedove entusiaste che si bruciano sul cadavere del marito? A patto ben inteso, che i vedovi si brucino un pochino anche loro sul rogo delle mogli.
Ma per tornare alle convenienze sociali, le vedove che non desiderano di bruciarsi, possono farne a meno senza mancare di civiltà. E, quanto al lutto, possono uniformarsi agli usi del paese dove vivono. Sono libere però di prolungarlo, non di abbreviarlo.
In Francia, ed anche in Piemonte, il lutto da vedova è di due anni. Il primo anno tutto in lana nero, con gran velo vedovile che copre quasi tutta la persona. È sempre il costume del rogo; nobile, pittoresco, solenne, senza gale, senza vetro nero lucente; la tetra divisa del dolore. È così ch'io comprendo la sposa d'un morto. Ma il secondo anno, anche in Francia e dappertutto, comincia un crescendo di luce, di tinte: il velo scompare, le gramaglie cedono il posto alla faglia di Lione, al taffetà di Napoli, neri, ma lucidi; e comincia a fremere in fondo una gala e poi un'altra.
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