Ma quando poi era riuscita ad imparare una cosa, poteva ripeterla all'infinito con una precisione minuziosa, come una macchina. La stessa attenzione scrupolosa che aveva dovuto prestare nell'annaspare la seta, guardando sempre alternativamente il naspo ed il rocchetto, riunendo con diligenza il filo se si spezzava, lavorando colla mano lesta, l'occhio fisso, la mente tesa, tutta assorta in quel compito superiore alla sua età, la applicava alle menome cose che le riusciva di fare. Se le avevan insegnato a spolverare i quattro piedi d'una tavola cominciando da destra ed andando a sinistra, per nessun rivolgimento di cose avrebbe potuto accader mai che cominciasse dal lato opposto, o che lasciasse uno dei quattro piedi non spolverato.
Se il Dottorino la picchiava, perché anche lui aveva le sue ore nere e doveva pure sfogarsi con qualcuno, la Matta si curvava, si rattrappiva sotto le busse, urlava quando sentiva male; ma non faceva lagnanze, non domandava ragione di quel trattamento. Se invece il padrone lodava le sue cucinature e le diceva: «Hai fatto bene» si stringeva nelle spalle come per dire che non c'entrava oppure rispondeva: «Io non so».
Quando, appena nata, aveva fatto il suo malinconico ingresso nell'ospizio dei trovatelli, doveva essere stata accolta da una monaca sentimentale che le aveva imposto il nome tenero di Amata.
La contadina che l'aveva presa a balia e tutta la sua famiglia, l'avevano chiamata la Matta alla prima, e, malgrado tutte le correzioni della monaca, e più tardi dell'assistente della filanda, avevano continuato a dir sempre quella loro storpiatura, alla maniera ostinata dei contadini.
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