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      Sapeva indovinare quando egli aveva voglia di fare una buona risata, e si prestava sempre volentieri a procurargli quel gusto, anche con sacrificio della propria dignità, e d'altro. Infine non si poteva trovare commensale più simpatico. Ed il castellano che non era ingrato, gli diceva: «Porti anche Giovanni, dottore. I signori d'una volta spendevano de' quattrini per avere chi li tenesse allegri: e, dacché lei lo fa senza salario, è giusto che almeno io dia da mangiare anche a suo figlio».
      Giovanni pranzava in cucina, e dopo pranzo giocava colla Rachele che aveva la sua stessa età; e quando tornava dal castello raccontava alla Matta i giochi che aveva fatti, e descriveva le bambole ed i balocchi della piccina.
     
      Per un pezzo la Matta aveva ascoltato senza dir nulla, ma s'era mostrata malcontenta di quei racconti. Poi un giorno gli aveva risposto con un riso di trionfo: «Alla Rachele non puoi saltare in groppa e farle fare il cavallo». «No» disse Giovanni. «È troppo piccina, e troppo ben vestita». «Io ho quasi quindici anni» osservò la Matta ridendo di gioia, e guardò i suoi abiti cenciosi con occhio d'amore.
     
      A nove anni la Rachele fu mandata all'istituto Bellini di Novara, ed i pranzi al castello riescirono noiosi per Giovanni. Specialmente l'inverno, quando dopo pranzo non poteva uscire in giardino, finiva per addormentarsi in un canto della sala, e quando si doveva svegliarlo erano grugniti, grida, calci, tutte le scene a cui s'abbandona un ragazzo disturbato nelle delizie del primo sonno.


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Il tramonto d'un ideale
di Marchesa Colombi
pagine 171

   





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