Era una scena fresca, estiva, signorile, che doveva inspirare un senso d'ineffabile benessere, dopo una corsa sotto il sollione d'agosto.
Ma Giovanni non ne parve affatto contento; fece un passo indietro come se volesse fuggire, ed una vampa di rossore gli salì al volto, mentre stringeva convulsamente il suo cappello a tricorno da oblato.
All'angolo della tavola, ritta e sorridente, aveva veduta Rachele, la compagna dei suoi giochi infantili, ch'egli aveva dominata altre volte colla sua forza e colla sua audacia, e che ora dominava lui colla superiorità del lusso e della bellezza.
Non aveva che la divisa del collegio di percalle chiaro, con un largo goletto increspato ed un fiore di verbena scarlatto nei capelli. Ma erano colori freschi, e la sua figura stessa dava alla toeletta un'apparenza di lusso. Aveva quella bianchezza abbagliante, quel colorito roseo vivace, che nella prima gioventù bastano da soli a costituire, o almeno a dare l'illusione della bellezza. Aveva i capelli d'un bel biondo d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie; era una di quelle figure chiare ed appariscenti che fanno impressione a prima vista, ed al cui confronto le brune anche più belle rimangono eclissate.
«Mia figlia» disse con orgoglio il signor Pedrotti. Ed il Dottorino dopo aver esclamato che era un angelo, canticchiò galantemente: «Sei tu dal ciel discesa, o in ciel son io con te?» ed il signor Pedrotti posò il giornale per ridere più liberamente. Ma mentre dondolando il capo e premendosi le mani sul cuore il Dottorino ripeteva: «Son io, son io, o in ciel son io, son io con te» gli cadde sott'occhio il suo indegno figliolo, che, tutto rosso in viso e ridicolo nella sua grottesca vestitura da prete, si rannicchiava contro lo stipite della porta, come se volesse insinuarsici e sparire fra l'uscio ed il muro.
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