Così finirono le vacanze, e Giovanni andò a Torino per gli studi universitari, senza aver più riveduta la sua compagna d'infanzia. Ma appena ebbe un amico gli parlò di lei, dei loro giochi infantili. E poi narrò come s'era fatta alta negli anni del collegio; descrisse la sua bellezza, l'aria da gran dama, il contegno maestoso... Però tutta tutta la verità del loro unico incontro non ebbe il coraggio di confessarla: e neppure il suo disgraziato abito da oblato. Preferì confidare all'amicizia i suoi disegni e le sue speranze.
Intanto gli abiti da prete erano rimasti indietro colle memorie del seminario e colle timidezze da adolescente. La vita dello studente a Torino, il vedersi vestito come gli altri giovinotti, la simpatia dei compagni, e la considerazione che gli acquistava il suo ingegno, gli ridavano la sua audacia naturale. Malgrado l'ammirazione vivissima che risentiva per Rachele, non mancava di prendere parte a tutti gli spassi de' suoi compagni; e, nella misura della sua piccola borsa, non trascurava nessun mezzo per acquistare l'esperienza della vita. Gli premeva di spogliarsi della rustichezza, dell'ingenuità, della selvatichezza da chierico di cui arrossiva. Doveva essere bello, elegante per presentarsi a lei: doveva saper discorrere con garbo, con spirito; ed aver fatti degli esami che fossero una splendida promessa pel suo avvenire. Diceva al suo amico: «Il Tale, che ora è deputato d'un collegio di M., ed ha scritto questo e quest'altro, era figlio d'una lattivendola.
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