Avrebbe voluto evitarla, ma non sapeva come fare.
Il Dottorino tardava. Il signor Pedrotti cominciava a guardare l'orologio sul camino, ed a contare, di cinque in cinque minuti, il tempo che passava. I convitati avevano già tirato in campo il discorso di circostanza del quarto legale, dopo il quale non c'è più obbligo d'aspettare, e ciondolavano per la sala guardando la mensa, leggicchiando i nomi sui tovaglioli, dando una occhiata ad un quadro, una capatina alla finestra, parlando a frasi tronche, dimenandosi come anime in pena.
Era una tempesta che s'ingrossava per scoppiare poi sul capo del povero capro emissario. Rachele, che la prevedeva, staccò alcuni fiori da un gran mazzo che ornava la mensa, ed andò a metterli in una coppa che pose sulla tavola dei bambini. Nella gentilezza del suo animo, pensava di preparare un compenso ai rabbuffi che toccherebbero al piccolo selvaggio.
Mentre era voltata e curva verso la tavola, udì una voce chiara un po' tremante, con un timbro metallico come le note alte di tenore, che diceva: «Siamo in ritardo, nevvero? Ho veduto che il babbo non giungeva, e sono venuto io a fare le nostre scuse...».
Rachele si voltò meravigliata, e riconobbe appena il chierichetto dell'anno prima nel bel giovinetto che le si fece incontro. Ma Giovanni aveva presunto troppo dalle proprie forze, e quando si trovò dinanzi a lei si fece rosso come una fiamma, non osò porgerle la mano, e stette troppo a lungo inchinato pensando una parola da dire, un saluto che non fosse dei soliti, e non trovò che questo: «Buon giorno signorina: come sta?
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