Anzi, le ho scritto più volte».
«Oh, mio Dio! Io non ho ricevuto nulla!» esclamava Rachele, spaurita all'idea di quelle lettere nelle mani di chissà chi.
«Non si spaventi» s'affrettava a dire Giovanni. «Ho scritto, ma non le ho mandate le mie lettere».
«Allora, perché le ha scritte?».
«Perché sentivo il bisogno di dirle qualche cosa». E dopo una pausa soggiungeva abbassando ancora la voce, e guardandola con passione: «E lei, non lo hai mai sentito quel bisogno?».
«È troppo curioso» rispondeva Rachele arrossendo. E quel rossore voleva dire di sì, che aveva scritto, che se ne vergognava un pochino, ma che ardeva dal desiderio di comunicargli quegli sfoghi epistolari, e di leggere quelli di lui.
Giovanni aveva già molto domata la sua timidezza da scolaretto. Osava fissare lungamente la bella fanciulla negli occhi, e non arrossiva più. Essa pure lo guardava tratto tratto, tanto più se erano un po' lontani, ed allora si dicevano cose appassionate con quei lunghi sguardi mesti. Le parole non avrebbero potuto dirne di più. Omai s'intendevano, e con quel muto linguaggio si comunicavano questo desiderio comune: «Se fossimo soli!».
La sera Rachele stava spesso sul terrazzo in fondo al giardino, e Giovanni passeggiava sulla strada di là dal fossato cogli occhi sempre rivolti a lei. E lei lo seguiva collo sguardo tenace. E quando s'allontanava, egli si voltava indietro ad ogni passo, si fermava, tornava a guardare, tornava a fermarsi, e soltanto allo svoltare della contrada, quando aveva passeggiato tanto che s'era fatto buio e si vedevano appena, si toglieva il cappello lentamente per prolungare quel saluto, che lei rendeva con un lieve chinare del capo.
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