Era evidente che nulla avrebbe amato meglio che di chiamarlo suo figlio.
Intanto però era venuta l'antivigilia della partenza di Giovanni per Milano, dove andava a cominciare la sua carriera legale; era finito l'ultimo pranzo in casa Pedrotti; e le cose stavano sempre allo stesso punto. Quel giorno però il signor Pedrotti era stato affettuosissimo per Giovanni. Lo aveva abbracciato chiamandolo ripetutamente: «Il nostro avvocato».
«Eccoti avviato ad una bella carriera» gli aveva detto. «Non mancarmi, sai. Bada che ho promesso di fare di te un grand'uomo. Ho avuto fede in te; ed ora che hai la laurea, tocca a te darmi ragione».
Poi l'aveva abbracciato ancora ed aveva detto: «Chissà che non ti vediamo deputato e non dobbiamo ricorrere a te per il bene del nostro paese. Chissà! Se lo vuoi... Volere è potere».
Tutto questo era detto bonariamente, ma in realtà, più per ricordare la parte ch'egli aveva avuto al conseguimento di quella laurea, e per atteggiarsi a protettore, che per ammirazione di Giovanni. Ma Giovanni raccoglieva quelle parole religiosamente. «Ho avuto fede in te». «Volere è potere». Egli voleva ottenere Rachele; e poiché il padre di lei aveva fede nel suo ingegno, perché non potrebbe? Anche Rachele pensava forse così, perché osservava con occhio di compiacenza quelle amorevolezze del babbo verso il suo innamorato.
Più tardi, quando Rachele gli porse la chicchera del caffè, Giovanni le susurrò: «Bisogna ch'io le parli prima di partire».
«Parli» disse lei, fermandosi come per porgergli la zuccheriera.
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